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Giggirriva, il mito di un sardo "vertical"

  • Immagine del redattore: Luca Urgu
    Luca Urgu
  • 2 mag 2024
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 18 mag 2024

di Luca Urgu

grafica Klojaf Studio / Salvatore Piredda


In ordine sparso starebbe benissimo in compagnia di Lussu, Gramsci, Berlinguer e magari anche Cossiga. Loro militanti e leader politici di caratura internazionale come il grande pensatore comunista di Ales, lui, Luigi Riva da Leggiuno, calciatore operaio e capopopolo. Più vicino e somigliante alla statura fisica e morale del comandante Emilio Lussu di Armungia per una serie di motivi. E anche se, nel suo Cagliari dello scudetto la fascia da capitano la teneva sul braccio soprattutto il libero (moderno) Pierluigi Cera, Riva era l’incursore di punta nelle linee nemiche.

Quello che oggi chiameremo con un inglesismo – uno dei tanti nel gergo calcistico – il top player dei rossoblù.


L’uomo che ha legato la sua intera esistenza con la maglia del Cagliari e la città che lo ha accolto ma che aveva cucita addosso anche la maglia azzurra della nazionale con cui detiene ancora imbattuto il record di gol (35 in 42 partite). Riva è morto martedì 21 gennaio, ma Riva sia chiaro è sempre vivo. Troppo importante il suo contributo dato a quest’isola per essere derubricato, cancellato e dimenticato. No, non è possibile.


Ha fatto più lui con le sue scelte, con le sue parole misurate ma pesanti come un macigno che tanti altri affabulatori e millantatori in giacca e cravatta che dal 1949 in poi si sono seduti sui banchi del consiglio regionale di via Roma o negli scranni del governo regionale di viale Trento.


Sono stato al suo funerale celebrato nella basilica della Madonna di Bonaria e ho assistito di persona alla commozione collettive della gente. C’erano uomini e donne che piangevano e le parole pronunciate dal pulpito facevano salire la commozione. Famiglie con bambini al seguito, altri saliti sul primo volo disponibile da Bologna e Milano per dargli l’ultimo saluto. Esserci aveva un significato che trascendeva l’aspetto sportivo, agonistico, il tifo. Stare in mezzo alle oltre 30 mila persone nel grande sagrato mi ha dato ulteriormente la dimensione di quanto bene abbia seminato quest’uomo e di quanto rispetto e riconoscenza abbia ricevuto in vita e poi per l’ultimo saluto.


Quei trentamila è un numero che non rende davvero bene l’idea, per lui tutta la Sardegna si è fermata per l’addio al suo Giggirriva (mi piace scriverla così raddoppiando con orgoglio e senso di appartenenza le consonanti) nel suo 79 esimo anno di età.

Ha unito dove i campanilismi italici e isolani dividevano perché era sia Rombo di tuono che Hombre vertical secondo le definizioni che i due grandissimi Gianni del giornalismo (Brera e Mura) gli avevano affibbiato azzeccandole alla perfezione entrambe. Due etichette che piacevano entrambe al nostro Riva, che lo inorgoglivano tantissimo, la seconda ancora più della prima.

Rombo di tuono era una metafora perfetta del Riva calciatore, forte, atletico e potente con un tiro sinistro che quando scoccava sembrava il fragore di un tuono che precede la tempesta. Ma la definizione di Gianni Mura alla sudamericana è più completa riguarda il calciatore, ma soprattutto l’uomo. Quello che ha principi saldi, una parola (non quattro o cinque in base alla convenienza del momento) e le sue scelte che parlano più della sua bocca che si apriva più per sbuffare il fumo denso delle sue bionde più che per lunghi discorsi.


Certo che quando parlava racconta radio spogliatoio si faceva sentire e veniva ascoltato con attenzione. Questo perché il bomber o come si diceva allora il cannoniere in campo dava davvero tutto con un’abnegazione e un’etica del lavoro delle più severe. Così i due gravissimi incidenti che gli hanno sicuramente accorciato la carriera e ridotto lo score di reti che in nazionale potevano essere ancora di più sono episodi che lo stesso Riva ha catalogato come “incidenti sul lavoro”.

Anche li nessun piagnisteo, solo la presa d’atto che potevano accadere e forza e volontà per ripartire ancora più forti di prima appena in campo senza sconti. E la sua frase per il rientro “spero di trovare un terzino che meni” rende benissimo l’idea di che pasta fosse forgiato il Riva calciatore.


Ma torniamo all’uomo e al suo rapporto con la Sardegna e con Cagliari. Da questa terra si è sentito davvero accolto e amato, ergo come ha ammesso più volte lui stesso “non poteva tradire” nemmeno per i tantissimi soldi che Juve e Inter hanno messo sul piatto a più riprese. Non poteva farlo dopo aver respirato tanto affetto in città o nei paesi che visitava nel tempo libero. Quando entrava nelle case vedeva la sua foto assieme a quella dei familiari di chi lo ospitava in quel momento non rimaneva impassibile. Non lui con quel carattere così introverso e perfettamente compatibile con l’indole isolana. Qui era arrivato da ragazzo di 17 anni, quasi spaventato per una terra che dall’alto dell’aereo gli sembrava il nord Africa. E qui si è fatto uomo, tutto d’un pezzo, appunto hombre vertical. E’ entrato nelle case dei pescatori, ma anche dei pastori dell’interno, dei minatori del Sulcis, ascoltato storie di emigrazione, sofferenza ma di grande dignità e ospitalità.

Insomma Riva e i sardi si sono fiutati e piano piano piaciuti sempre di più. E lui condottiero di quella squadra di campioni che ha vinto lo scudetto ma per almeno sei anni è stata capace di fare bardane con bottino pieno negli stadi prima inviolabili di Milano, Torino capiva che quelle vittorie per le migliaia di isolani al nord per lavoro erano una panacea per le tante tribolazioni quotidiane. Una soddisfazione enorme, un orgoglio che faceva gonfiare il petto al metalmeccanico in fabbrica il lunedì che di quelle vittorie si nutriva davvero.

La lezione di Riva va assimilata in più puntate ad iniziare dal fatto che i soldi non possono comprare tutto. Lui stava bene qua e i milioni delle blasonate squadre del nord avrebbero sicuramente arricchito il suo conto in banca, ma probabilmente impoverito il suo patrimonio di relazioni umane.

Tra la sella del diavolo, la serpentina di asfalto che portava al meraviglioso mare di Villasimius (ma aveva solo l’imbarazzo della scelta), il crocevia di via Farina, via dante e via Sonnino erano le sue zone confort. Così come lo era il suo solito tavolo al ristorante La stella Marina di Montecristo.


Nessuno lo disturbava, lo assillava. Ma lui non si negava a nessuno. Con i suoi modi discreti, la sua ironia anche rivolta a se stesso.


Non sopportava le ipocrisie in particolare di quelli (esiste proprio un partito se non un esercito) che ha la brutta abitudine di salire sul carro dei vincitori.


Per loro c’erano le torte in faccia (al ristorante Corsaro verde dove la società aveva organizzato una cena per festeggiare il tricolore, ma a Riva e compagni non andò giù la presenza di alcuni infiltrati e reagirono a modo loro), oppure nel 2006 quando fu lui a scendere per lo stesso motivo dal pullman dell’Italia a Roma fresca campione del mondo dopo il titolo vinto in Germania. In quella e in altre occasioni si accendeva l’ennesima sigaretta e si mischiava tra la gente in maniera più anonima possibile. Inforcava gli occhiali scuri da sole a proteggere gli occhi azzurri, lo schermo chiaro di un’anima buona altrettanto linda e pulita come il mare in cui per anni si è rifugiato a inalare salsedine, maestrale e nostalgia.

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